Si chiamano Millennium Develpoment Goals e sono gli obiettivi che gli stati membri dell’Onu hanno deciso di raggiungere entro il 2015 per contrastare povertà e sottosviluppo. Tra gli otto campi d’azione, anche quello teso al  raggiungimento dell’uguaglianza di genere attraverso istruzione e maggiore impiego delle donne: in pratica, tutto ciò che in inglese è definito “empowering woman”.

A segnare la differenza  tra i MDG e le centinaia di organizzazioni umanitarie diffuse in tutto il mondo è la loro identità pubblica, ovvero il fatto di essere un impegno ufficiale e statale che i paesi membri dell’Onu decidono di prendere intervenendo soprattutto a livello macropolitico e macroeconomico.
Nel corso degli anni, a partire dalla loro nascita nel 2000, i Millennium Development Goals sono stati bersaglio di molte critiche, legate agli scarsi progressi registrati e, più di tutto, all’assenza di un programma d’intervento basato non solo sul concetto di sviluppo, ma anche sulla sostenibilità.
È perciò prevedibile un cambio di direzione, come ipotizza Donato Speroni, economista del Corriere della Sera: “I prossimi obiettivi saranno fissati per il 2030 – spiega Speroni- ed è necessario che pongano maggiore attenzione alla sostenibilità in tutti i campi, passando dall’essere MDG a SDG, Sustainable Development Goals”.
Dello stesso avviso è anche il professore Jeffrey D Sachs  dell’ Earth Institute della  Columbia  University di New  York, che ha definito i  SDG come “a  combination of economic development, environmental sustainability, and social inclusion”. (consultabile in: http://jeffsachs.org/wp-content/uploads/2012/06/From-MDGs-to-SDGs-Lancet-June-2012.pdf).
Da questo punto di vista, con una curiosa lettura parallela tra questo sistema e la condizione delle donne dei paesi in via di sviluppo, è possibile rintracciare un’evoluzione profetica tutta femminile del problema.
Nei casi di microcredito concessi dal Undp (United Nation Development Program) alle donne di Mbete, in Zambia, tutti e tre i parametri teorizzati dal professor Sachs sono già rispettati.
Nel giro di poco tempo, Sebi Eafukwe e altre settecento donne del villaggio sulle sponde del lago Tanganyikka hanno creato una efficiente coltivazione di riso che ha permesso loro di abbandonare la pesca del lago. Le riserve ittiche, infatti, si stanno completamente esaurendo a causa della pesca intensiva che da secoli è considerata unica fonte di guadagno per tutta la zona.
Le donne di Mbete si sono così reinventate raccoglitrici di riso. Partendo da un microcredito di 60 dollari, hanno investito e sono arrivate a guadagnare fino a 300 dollari l’anno. Inoltre, incoraggiate da questo successo, hanno ampliato le coltivazioni estendendole ai vegetali e ad altri cereali, fino a investire sull’allevamento del pollame.
In questo modo, oltre all’introito monetario (economic development) derivato dalla vendita dei loro prodotti (environmental sustainability), possono assicurare alla propria famiglia un’alimentazione variegata a costo zero e possono garantire un’istruzione adeguata ai loro figli. E alle loro figlie (social inclusion).