Siamo nel 2013, ormai. Eppure siamo costretti a ripetere gli stessi errori del passato, a rivivere crisi prevedibili, a osservare con disappunto - e con tanta tristezza - come, nonostante le tecnologie costantemente aggiornate e il continuo progresso delle nostre civiltà, siamo ancora eticamente fermi alla preistoria.

 O forse andiamo peggiorando, in un vortice di diseguaglianza sociale il quale, soprattutto nei momenti economicamente più critici, si impadronisce della società. Spesso mi sono anche chiesta se questa tanto decantata democrazia, che i nostri predecessori hanno faticosamente ottenuto, sia rimasta tale, o si sia evoluta, adattandosi alla nostra indole individualistica e poco propensa alla cooperazione sociale, fino al punto da non riuscire a garantire gli standard minimi per la sopravvivenza.
Nel settembre 2000 gli Stati membri dell’ONU hanno sottoscritto la Dichiarazione del Millennio, con la quale sono stati fissati 8 obiettivi da raggiungere entro il 2015. Con il primo obiettivo, essi si sono impegnati a sradicare la povertà estrema e la fame, riducendo della metà la percentuale di popolazione che vive in condizione di povertà estrema. Eppure al giorno d’oggi 89 Paesi versano in una situazione peggiore di dieci anni fa e 1.442 milioni di persone vivono al di sotto dei livelli di povertà (*). Di chi è la colpa?
Vivere dignitosamente è un diritto. C’è una frase che mi piace tanto: è di Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana: “Dobbiamo riprenderci il diritto di conservare i semi e la biodiversità. Il diritto al nutrimento e al cibo sano. Il diritto di proteggere la terra e le sue diverse specie. Dobbiamo fermare il furto delle multinazionali a danno dei poveri e della natura. La democrazia alimentare è al centro dell'agenda per la democrazia e i diritti umani, al centro del programma per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale.” Recentemente a Londra la campagna Enough Food for Everyone ha individuato di chi è - almeno in parte – la colpa della fame nel mondo: si tratta di cinque multinazionali che controllano il 90% del mercato del grano. Le multinazionali operano soprattutto negli Stati già poveri, peggiorandone la situazione: attraverso accordi di dubbia legalità con le amministrazioni locali, si impadroniscono di immensi terreni a basso costo (  per esempio in alcune zone dell’Africa), allontanandone le tribù indigene che non possono effettivamente rivendicarne diritti di proprietà; a causa dell’assenza di normative adeguate a sostegno dei lavoratori, essi sono sfruttati, sottopagati, costretti a lavorare in condizioni non adeguate – e questo riguarda anche molti bambini - ; le multinazionali, attraverso il decentramento, ostacolano lo sviluppo dell’economia locale, così come favoriscono la scomparsa della biodiversità.
Per fortuna però, qualcosa si sta muovendo. Commercio equo e solidale, movimenti contro la fame, movimenti per favorire l’artigianato locale o per ridistribuire più equamente i terreni. Chissà se, in futuro, le istituzioni terranno in considerazione modelli quali economia verde o sviluppo sostenibile. O è un'utopia?  
(*) secondo i dati dell’associazione Utopie Onlus