Un terzo del cibo prodotto ogni anno nel mondo finisce nel cestino. Questa la stima elaborata dalla Fao e contenuta nell'ultimo rapporto intitolato "Food wastage footprint, impacts on natural resources". Presentato stamane a Roma dal Direttore generale José Graziano Da Silva, lo studio si propone non solo di denunciare una dinamica giudicata "inaccettabile, insostenibile e assurda" ma anche di indicare una strategia per risolverla.

Iniziamo dai numeri. Se il volume complessivo del cibo sprecato nel 2007 è stato pari a 1,6 giga tonnellate (10 alla nona), il consumo di superficie idrica legata a quel cibo poi sprecato è pari a 250 chilometri cubi, circa tre volte il volume del lago di Ginevra (l'acqua sprecata per la filiera agricola è superiore di quella perduta da India o Cina). E ancora: se lo spreco alimentare mondiale fosse un Paese, le emissioni di CO2 (non viene pedice) da lui prodotte gli garantirebbero la terza posizione nella classifica delle nazioni più inquinanti (3.3 giga tonnellate, dopo Cina e Stati Uniti). I terreni agricoli (non) ringraziano, visto che il cibo prodotto ma sprecato ne occupa 1,4 miliardi di ettari, che è esattamente il 30% del suolo coltivabile del nostro Pianeta. Dati per certi versi fortemente sottostimati, dato il percorso di studi prolungato, e quindi rivolto ad anni passati (si pensi al dato del volume complessivo, al 2007).
Analizzato per fasi, lo spreco alimentare si concentra nel primo passaggio: la produzione agricola, senza dimenticare l'incidenza dello stoccaggio. Se l'intermediazione e la distribuzione contribuiscono -insieme- meno della produzione agricola, i livelli di guardia sono nuovamente raggiunti nella fase del consumo -ed è infatti ai consumatori europei e nord-americani che il Direttore Generale Da Silva s'è rivolto, con particolare attenzione alla responsabilità delle grandi catene di distribuzione.
Per quel che riguarda la tipologia di alimenti sprecati e i Paesi dove più si concentra il fenomeno, è l'Asia -suddivisa in "industrializzata" e "sud, sud ovest"- a guidare saldamente il gruppo delle 10 regioni mondiali, con ortaggi e cereali. A chiudere sono i cereali prodotti in l'Europa. Una classifica che rischia di confondere, visto che in termini di impronta ed emissioni, Europa e Nord America insieme stracciano le contendenti, specie perché laureate, come detto, alla voce "spreco" nell'anello finale, e forse anche più odioso: il consumo.
Nel versante dei prodotti sono i cereali (la birra non rientra nella classificazione, specifica il rapporto) a conoscere in maniera più massiccia il fenomeno dello spreco alimentare, seguiti da ortaggi e frutta. La carne, che pesa poco in termini di spreco, pesa tantissimo in termini di ricadute ambientali e a livello di emissioni nell'atmosfera.
La curatrice del progetto, Mathilde Iweins, ha fatto riferimento al "percorso lungo" che attende le istituzioni e i cittadini prima di poter pienamente comprendere le ricadute drammatiche dello spreco alimentare, considerando che oltre 1 miliardo di persone, nel mondo, soffrono la fame. Esempi da seguire: il Belgio, secondo Iweins, capace di opporre alle catene distributive politiche di incentivi all'attenta gestione dei prodotti.
Da Silva, sul finale, s'è rivolto ai (pochi) giornalisti impiegando una metafora: "è come se fossimo al buffet del matrimonio di un amico. Sappiamo che di tutto quel che faremo, compreso soprattutto mangiare senza sosta o perizia, nessuno verrà a chiederci conto. Ecco, è venuto il momento di chiedere conto a chi spreca".